Proiettato da una cittadina Toscana di provincia alla città più europea d’Italia, Milano, il cambiamento fu entusiasmante. L’ambiente Accademico e il contesto delle produzioni fotografiche di moda mi avevano accolto calorosamente, mi trovavo in un ambiente saturo di stimoli in ogni direzione.
I primi anni di studio furono un periodo di grande riflessione, mi ero spostato per il generico interesse di apprendere nuove tecniche di rappresentazione legate alle tecnologie digitali e quello che stavo affrontando era invece una riconfigurazione della concezione ingenua di arte e atto creativo. Tutto nell’ambiente Accademico chiedeva di celebrare sacrifici al fuoco della ricerca artistica personale e questo era generalmente inteso come produzione di opere e costruzione di un’identità interessante da spendere nel mercato dell’arte contemporanea.
Era un percorso che pareva realizzabile solo attraverso l’alimentazione di relazioni dettate dall’utilità, con una buona dose di autosfruttamento fisico, mentale e economico. Il senso sembrava passare in secondo piano, bastava che l’opera fosse ben inserita nel tessuto citazionistico e usasse un lessico condiviso dal discorso artistico dominante. Era come un fiume di produzioni personalistiche spesso estremamente conformiste. La mia reazione immediata non fu di fuga: volevo restare, ma per proporre qualcosa che avesse senso c’era prima di tutto il bisogno di fare silenzio. Pensai che potesse essere una buona idea quella di occupare uno spazio formalmente integrato nel mondo dell’arte, ma lasciandolo vuoto, senza opere: pause nella replicazione insensata di elaborati francamente trascurabili.
Parlai alla Professoressa del corso di Linguaggi dell’Arte Contemporanea, Elisabetta Longari. Lei mi consigliò di approfondire l’estetica dell’arte orientale e mi dette da studiare Yves Klein per affrontare il suo esame.
Yves Klein è stato un artista francese di grande importanza, celebre per i suoi monocromi blu; morì prematuramente lasciando incompleta una delle più interessanti ricerche artistiche del Novecento. Interprete eccellente dell’ibridazione culturale tra oriente e occidente, Klein lavorò con l’esperienza del vuoto.

Dal 28 aprile al 12 maggio del 1958 presso la Galerie Iris Clert di Parigi, Klein propose una mostra che andava oltre la materialità dell’opera d’arte. Ridipinse le pareti della galleria di bianco ed espose semplicemente il luogo-vuoto trasformando l’esperienza stessa dell’osservatore in opera d’arte.
Agli invitati al vernissage fu offerto un aperitivo, il «blue cocktail», composto da gin, Cointreau, e blu di metilene.
La ricerca artistica di Klein attraversò il colore, il vuoto e il fuoco. Il vuoto di Klein non è quello che potremmo dicotomicamente contrapporre al pieno, ma è una condizione esistenziale comprensiva di tutte le cose che permette al tutto di darsi in divenire.
L’artista futuro non sarà forse colui che, attraverso il silenzio, ma eternamente, esprimerà un’immensa pittura, cui mancherà ogni concetto di dimensione?.
I visitatori delle gallerie – sempre le stesse persone, e simili a tutti gli altri – porteranno con sé quest’immensa pittura nella loro memoria (una memoria che non deriverà affatto dal passato ma che in se stessa sarà conoscenza di una possibilità di accrescere indefinitamente l’incommensurabile, all’interno della sensibilità umana dell’indefinibile).
E’ sempre necessario creare e ricreare in un’incessante fluidità fisica in modo da ricevere questa grazia che permette una reale creatività del vuoto.
[…]
Con l’avere respinto il nulla, io avevo scoperto il vuoto. Il significato delle zone pittoriche immateriali, derivate dal profondo del vuoto che in quel momento ero giunto a dominare, era veramente d’ordine materiale.
[…]
Tutte le realtà in sé contraddittorie, sono autentici principi di una spiegazione dell’universo.
Yves Klein, manifesto dell’Hotel Chelsea, 1961
Sebbene Klein fosse un esponente illustre delle tensioni che, attraversando la modernità, portavano proprio alla formazione di quel contesto dell’arte da cui mi ero profondamente disamorato, la sua ricerca mi fornì spunti preziosi su cui continuare le mie riflessioni. Fu grazie a lui se mi avvicinai al Buddhismo Zen.

Il Nome di Klein era spesso associato a Pierre Restany, critico d’arte che aveva riconosciuto l’alto valore artistico e spirituale della sua opera, ed insieme al quale nel 1962 aveva fondato il gruppo dei Nouveaux Réalistes. Dal 1985 fino alla sua morte Pierre Restany diresse la rivista italiana D’Ars avente sede a Milano.
Quando arrivai a Milano Pierre Restany era morto da qualche anno, ma D’Ars rimaneva un osservatorio privilegiato su arte e culture contemporanee. Pur occupandosi del settore a 360°, volgeva uno sguardo attento e sensibile al campo dell’arte multimediale digitale. Seguii con attenzione le edizioni del concorso Milano in Digitale, prendendo parte alle attività correlate, che rappresentarono un’integrazione fondamentale alla mia formazione accademica. Nel 2011 venne lanciato Meltingpot: Cantieri creativi per la New Media Art e partecipai come giovane artista alla prima sessione del cantiere. Nel 2012 D’Ars era diretta da Cristina Trivellin e vedeva la partecipazione di Martina Coletti, Viola Lilith Russi, Loretta Borrelli e Valentina Tovaglia.
Quando fu il momento di cocludere il percorso del diploma accademico con un tirocinio formativo, scelsi D’Ars; tutta la redazione mi accolse come una famiglia. Lì ebbi la possibilità di farmi un’idea del funzionamento del settore editoriale, imparai a impaginare i testi e a gestire i social media della rivista in maniera professionale e approfondii sul campo lo studio dell’arte multimediale digitale.
Fu un grandissimo onore e un estremo piacere fare quell’esperienza, non solo dal punto di vista professionale ma anche affettivo. In D’Ars ho potuto respirare l’atmosfera dell’autentica passione per gli argomenti trattati e credo che questa sia condizione rara e preziosa nel panorama lavorativo contemporaneo.